DENTRO LE PUBBLICITÀ "INSOPPORTABILI" DEGLI ANNI ‘50 (ma non solo)
Intraprendere un'analisi retrospettiva della comunicazione visiva che ha caratterizzato il secolo scorso, in particolare dagli anni ’50 in avanti, si configura come un'opportunità stimolante, di grande valore conoscitivo sul passato, ma anche sul nostro oggi. L'indagine non si limita alla pura contemplazione estetica degli aspetti formali. Attraverso le campagne pubblicitarie di quegli anni possiamo rivivere non solo il design, i colori, i layout e le proposte grafiche ma possiamo entrare dentro i processi di pensiero, l’etica sociale, il contesto culturale. Possiamo penetrare negli strati più profondi dell'episteme di un'epoca, accedendo alle strutture di pensiero, ai sistemi valoriali condivisi, all'ethos collettivo che permeava il tessuto sociale di quel periodo storico, di quella società a noi così tanto vicina. Osservando con attenzione quel contesto potremo capire perché quelle pubblicità erano così spesso violente, sessiste, razziste.
Quelle campagne pubblicitarie operavano simultaneamente su molteplici registri semiotici: in superficie proponevano merci e costruivano identità di brand, ma al contempo esse erano la manifestazione della società che le aveva prodotte, cristallizzando e riproducendo l'immaginario dominante, le ideologie, le convenzioni culturali prevalenti del tempo. Osservare oggi quella comunicazione, dalla distanza determinata dal trascorrere del tempo e dal mutamento dei paradigmi etici, ci consente uno sguardo probabilmente più ampio e distaccato, prendendo atto di esposizioni e rappresentazioni che con l'odierna coscienza critica non possiamo che qualificare come aberranti, insopportabili, assurde, violente, grottesche, disgustose, discriminatorie.
Com’è possibile che siano state realizzate? Com’è possibile che siano state accolte? Per quale ragione le istituzioni non intervennero a censurarle, orientarle, limitarle? Come fu possibile che l'apparato sociale le accettasse senza significative resistenze? Come mai? Quali erano le condizioni che rendevano tali rappresentazioni non solo tollerabili, ma addirittura funzionali alla riproduzione dell'ordine simbolico di quell'epoca?
Sono interrogativi che sorgono spontanei, che se pur certamente hanno una matrice storico-filosofica-sociologica oltre che pubblicitaria, soprattutto sgorgano dalle viscere, dal cuore, da un impeto istintivo che è frutto del nostro attuale contesto culturale ed emotivo.
Per cercare di comprendere proviamo a diventare un pesciolino, ed a considerare l’acqua. Partiamo, cioè, da questa considerazione "Non so chi ha scoperto l'acqua, ma sicuramente non è stato un pesce" (significativo aforisma di Marshall McLuhan1). Una adeguata lettura di questa metafora ci consente di cogliere l'impossibilità epistemologica di assumere una posizione analitica ed una visione d’insieme quando si è completamente immersi in un ambiente culturale. Quando il vertice osservativo è interno al sistema culturale stesso che si intende osservare, non si può realmente studiare il fenomeno ed averne un quadro d’insieme, non si può concretamente analizzare e non si può godere di una visione “altra” che possa considerare in maniera ampia e profonda, e forse più emotivamente distaccata, l’intero accadimento. Quando si è immersi in un sistema culturale, è tautologicamente impossibile vederlo dall'esterno, come i pesci che non vedono l’acqua nella quale nuotano.
Gli assiomi fondamentali della nostra società, quelle premesse che accettiamo acriticamente, che percepiamo come "naturali", sono in realtà artefatti culturali, prodotti storicamente determinati da specifiche configurazioni di cultura, potere, comunicazione, manipolazione. Sono l’acqua dentro la quale nuotiamo.
Nella pubblicità del periodo storico che stiamo considerando, il sessismo, la discriminazione, il razzismo non erano riconosciuti come tali. Perché? Banalmente, costituivano la struttura di pensiero di quel sistema sociale.
Le radici e le propaggini di quella foresta di pensiero continuano ancora oggi a manifestarsi ed avere ripercussioni nel nostro modo di pensare, vivere, socializzare, parlare, vestire, comunicare, etc. Così, mi pare corretto evidenziarlo, il nostro vertice osservativo non è davvero fuori da quel contesto culturale, siamo ancora in buona parte dentro quelle stesse acque. Anche l’attuale modo di considerare le cose è una manifestazione di pensiero che è certamente differente da quella degli anni ’50, ma che osserveremo con altrettanta sorpresa e spiazzamento tra 50 o 100 anni.
Nella comunicazione pubblicitaria presente sui giornali e sulle riviste dell’epoca, la divisione di genere, dei ruoli, l’umiliazione della figura femminile, non era percepita come discriminazione, ma come ordine naturale delle cose. Essere maschio o essere femmina non era, e non è ancor oggi, solo una manifestazione sessuata dell’essere umano, ma era, ed è, l’indossare una sovrastruttura comportamentale, sociale, relazionale per il semplice fatto d’essere dotati di pene o vagina. Il richiamo a ben precisi ruoli, contesti, comportamenti molto ben definiti, estremamente strutturati era del tutto normale.
In che senso normale? Nel senso specifico d’essere nella norma, d’essere giuridicamente normato2, di essere prevalente o prevalentemente manifestato. Così non era strano pensare che le donne fossero biologicamente e mentalmente destinate alla casa ed ai figli, mentre gli uomini al lavoro e alla vita pubblica. Certo, potevano esserci delle eccezioni, spesso mal viste, ma era certo che fossero esattamente “eccezioni”: cioè qualcosa che eccezionalmente eccepisce ciò che è “normalizzato”.
Queste idee erano costantemente rafforzate in ogni contesto e da ogni istituzione sociale: la famiglia, la scuola, la chiesa, la medicina, la psicologia dell'epoca. Ovviamente anche dalla pubblicità. L’emblema culturale dell’essere umano è un maschio, bianco, eterosessuale, senza disabilità, occidentale. Tutto ciò che diverge da questo stereotipo culturale è considerato sempre più detestabile quanto più diverge dall’archetipo di riferimento.
Fissiamo alcuni punti che ci sono utili per delineare un contesto con il quale fare i conti. Un contesto in cui la donna, l’omosessuale, il nero, il diverso, l’altro, siano figure sempre più distanti ed inferiori.
Le esposizioni etnologiche, dei veri e propri zoo di esseri umani, furono presenti in Europa sino a tutta la prima metà del ‘900. Si tratta di un orrore così ampio e detestabile che è difficile anche solo da immaginare. Oggi non ci piace ricordarlo e non lo si ricorda con piacere: si trattava di esseri umani catturati, deportati ed esposti in gabbie o ricostruzioni di villaggi nativi di fronte a folle di spettatori paganti. Con l’espressione folle di spettatori intendo far riferimento a milioni di visitatori, proprio per evidenziare la normalizzazione di certi fenomeni. Le mostre enfatizzavano la presunta gerarchia evolutiva tra i "civilizzati" europei occidentali e gli "altri" popoli, prevalentemente comunità indigene provenienti dall'Africa, ma anche dall'Oceania, dall'Asia e dalle Americhe: una concezione razzista e coloniale dell'umanità, intrisa di violenza e suprematismo.
È interessante evidenziare lo sconcerto, il dolore, che oggi la nostra società vive quando apprende l’esistenza dei programmi di sterilizzazione di massa, dei campi di concentramento e dei forni crematori presenti in occidente, negli USA ed in Europa, in anni precedenti alla Seconda Guerra Mondiale, e precedenti al nazismo. I campi di concentramento sorsero e si diffusero in tutto l’occidente per varie motivazioni, tutte becere, violente e deprecabili. I primi campi di concentramento di cui abbiamo notizia furono ideati dal generale spagnolo Nicolau nel 1896 a Cuba. L’idea piacque agli Stati Uniti che li adottarono presto, a partire dal 1900, nelle Filippine contro chi si opponeva al loro dominio. Vi furono i campi britannici in Sudafrica durante la guerra anglo-boera3. L’omicidio sistematico dei disabili fisici e mentali attraverso "forni" fu una pratica precedente al nazismo e ad Hitler. I diffusi programmi di sterilizzazione di massa per motivi raziali o per discriminazione sessuale furono un fenomeno ampio, prolungato, anche recente, e talmente diffuso che merita una trattazione a parte, principalmente perché quasi mai raccontato, sconosciuto ai più, che ha coinvolto gli USA, il Canada, l’India, la Cina, il Giappone e numerose altre nazioni4.
Il concetto che chiunque sia diverso da “me” sia inferiore, detestabile, violabile e distruttibile era molto più forte e radicato di quanto lo sia oggi e, sia chiaro, oggi lo è ancora parecchio. Così che più ci si allontanava dal prototipo di uomo-bianco-eterosessuale più era, ed è, culturalmente accettabile la violenza verso chi è “altro”. Così non sorprendono le pubblicità sessiste, razziste, mortificanti degli anni ’50 e dei decenni a seguire. L’humus culturale su cui si fondava quella comunicazione pubblicitaria affondava le sue radici in una società che aveva prodotto zoo umani, campi di concentramento e parecchio altro orrore. Ma anche, più banalmente, aveva generato il delitto d’onore, le “case chiuse”, la violenza sessuale istituzionalizzata ed una miriade di altre nefandezze5. Tra queste il fatto che alle donne, in Italia, non fosse concesso votare. Ecco, che in quel contesto storico riusciamo più facilmente a comprendere come la comunicazione pubblicitaria potesse produrre delle campagne che oggi consideriamo raccapriccianti. In quel mare culturale i pesci vedevano come normale quel tipo di produzioni.
La comunicazione pubblicitaria della seconda metà del Novecento costituisce un caso paradigmatico di questo meccanismo. I creativi, i copywriter, gli art director e i committenti che progettavano quelle campagne non stavano deliberatamente producendo messaggi sessisti secondo una strategia consapevole di discriminazione. Operavano all'interno di un orizzonte culturale in cui determinate rappresentazioni della donna, angelo del focolare, non troppo sveglia, oggetto decorativo al servizio del desiderio del maschio-bianco-eterosessuale, consumatrice orientata verso prodotti per la casa e la cura della famiglia, apparivano non solo semplicemente veritiere, ma addirittura ovvie. Non si trattava di distorcere la realtà, ma di rappresentarla secondo i codici che quella realtà stessa aveva normalizzato, fin quasi naturalizzato.
La pubblicità, in quanto specchio ma anche produttore di immaginario collettivo, rifletteva e simultaneamente rafforzava una visione del mondo in cui l'asimmetria di genere non era problematizzata. Le donne venivano sistematicamente rappresentate in spazi domestici, intente a mansioni di pulizia o cucina, estatiche di fronte all'efficacia di un detersivo, in crisi mistica per una lavatrice, ed estremamente grate per aver suscitato l'approvazione maschile. Gli uomini, al contrario, dovevano abitare lo spazio pubblico, professionale e decisionale, ostentare sempre forza, coraggio, militarismo, nascondere ogni genere di emozione, e preferibilmente fumare sigari. Quando una donna appariva in contesti extra-domestici, spesso la sua presenza era ornamentale, funzionale all'economia del desiderio piuttosto che alla rappresentazione di un'autonomia professionale, intellettuale o più semplicemente umana.
Questo linguaggio visivo e verbale non veniva percepito come violento o oppressivo dai suoi stessi creatori perché costituiva il tessuto stesso della percepita normalità normalizzata, normata. La struttura della società era talmente pervasiva da risultare trasparente, invisibile proprio nella sua ubiquità. Oggi è diverso? Oggi, con un atto altrettanto violento, definiamo quella società patriarcale, un termine che semplicemente si è affermato con un carico simbolico e significativo assai spesso deplorevole e sessista. Dentro questa acqua in cui nuotiamo ancora, abbiamo solo cambiato stagno, così non lo riconosciamo e non lo vediamo nella sua stentorea violenza. Non siamo pronti, non è ancora il tempo per riconoscere anche questo tipo di violenza. Forse ci arriveremo tra 50 anni, riconoscendo altri aspetti della violenza di genere, della discriminazione sessuale e della costruzione di ruoli sociali normalizzati. Così come, molto più lentamente, forse riconosceremo una miriade di atti violenti contro tutti gli esseri viventi diversi dall’essere umano.
I professionisti della comunicazione dell’epoca, occidentali, bianchi, eterosessuali, e quasi tutti maschi, non potevano vedere il sessismo strutturale che permeava ogni disegno, ogni scatto fotografico, ogni fotogramma, ogni headline, ogni concept creativo. Erano immersi in un flusso culturale che definiva cosa fosse appropriato, desiderabile, convincente nella rappresentazione dei generi.
La distanza temporale che ci separa da quelle rappresentazioni ci permette oggi di riconoscere quanto fossero cariche di presupposti ideologici, quanto contribuissero attivamente alla riproduzione di un ordine sociale fondato sulla disuguaglianza. Ma questa consapevolezza critica non dovrebbe tradursi tout court in un giudizio moralistico “a posteriori”: si tratta piuttosto di comprendere come i sistemi culturali producano le condizioni della propria invisibilità, rendendo normalizzato ciò che è invece profondamente storico e contingente.
Questa consapevolezza, questa capacità di guardare al passato, di vedere l’orrido e l’orrore della comunicazione visiva di quegli anni, può tornare utile per ampliare oggi la nostra attuale visione sulle cose. Può aiutarci a fare un gesto, un guizzo, ad uscire con un balzo fuori dall’acqua culturale che ci contiene e provare ad avere, almeno un po’, una visione più ampia, diversa, di quello che viviamo e vediamo. È utile sollevare il capo dai contesti a cui siamo abituati, fuoriuscire dal dibattito quotidiano per vedere cosa succede osservando da altri punti di vista.
Perché la nostra attenzione si è focalizzata sulla pubblicità degli anni ’50, e dei decenni a seguire? Perché tutto quello che è stato sin qui scritto fa riferimento prevalentemente a quel periodo storico? Come mai ci interessa meno la comunicazione pubblicitaria degli anni precedenti?
Ci sono tre motivazioni essenziali:
La seconda metà del ‘900 è temporalmente e culturalmente vicina, la sentiamo fortemente, ha fatto parte della storia viva delle nostre famiglie, dei nostri padri, delle nostre madri, nonni e nonne;
Il marketing, la pubblicità, la propaganda, la comunicazione politica, la comunicazione aziendale esplodono tutte insieme nel post seconda rivoluzione industriale, insieme all’impresa bellica, insieme alla società del capitalismo, insieme al consumismo, alla produzione ed i consumi di massa, e si affermano proprio nella e dalla seconda metà del novecento;
Durante la seconda guerra mondiale il ruolo della donna era mutato rapidamente, le donne avevano sostituito gli uomini impegnati in guerra in quasi tutti i ruoli della vita sociale, lavorativa, relazionale. Con la fine della WW2 le donne, si pensava, dovessero tornare al loro posto, pertanto era necessaria una rieducazione di genere di massa: doveva essere ben chiaro che la donna ideale è quella si sente completa e realizzata nello sposarsi, fare figli ed accudirli, occuparsi della casa, pulire, cucinare, compiacere il marito3.
Da qui espressioni linguistiche come “gentil sesso” e “sesso debole”, ed una costruzione visiva aggressiva, tesa a costruire e consolidare delle strutture di pensiero, a consolidare una struttura sociale rigidamente strutturata e divisa in sessi, con sperequazioni immense e dolorosissime nella vita di tutti i giorni, nelle relazioni umane, nel lavoro, nel diritto di famiglia, nei rapporti parentali, nella sessualità, nella politica, nella pubblicità ovviamente.
La pubblicità fu uno strumento importantissimo in questo processo di rieducazione di massa.
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1 Herbert Marshall McLuhan sociologo, filosofo e critico letterario. La sua fama è legata alla sua interpretazione innovativa degli effetti prodotti dalla comunicazione sia sulla società nel suo complesso sia sui comportamenti dei singoli. La sua riflessione ruota intorno all'ipotesi secondo cui il mezzo tecnologico che determina i caratteri strutturali della comunicazione produce effetti pervasivi sull'immaginario collettivo, indipendentemente dai contenuti dell'informazione di volta in volta veicolata. Di qui la sua celebre tesi secondo cui "il medium è il messaggio".
2 Un esempio su tutti: nel marzo 1952, il genio Alan Turing fu accusato di «indecenza grave e perversione sessuale» e condannato alla prigione per un'imputazione che nella Gran Bretagna di quell'epoca era pesantemente sanzionata: essere omosessuale.
3 https://www.treccani.it/enciclopedia/i-campi-di-concentramento_(Dizionario-di-Storia)
4 Si veda in merito l’azione di Leilani Muir, pur essendo incredibilmente quasi inesistenti contenuti in lingua italiana.
5 Indro Montanelli, considerato uno dei più grandi giornalisti italiani del '900, scrisse e raccontò con grande naturalezza, più volte ed in maniera documentata, l’acquisto di una bambina di 12 anni, abissina, per fini sessuali. Un atto che oggi chiameremmo di pedofilia e violenza sessuale su minore.
https://www.avvenire.it/politica/montanelli-predatore-via-quella-statua-chi-ha-ragione_45423
6 Voglio qualcosa di più del marito, dei figli e della casa, da "La mistica della femminilità" di Betty Friedan, attivista statunitense, teorica del movimento femminista degli anni sessanta e settanta.







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