Comunicazione: la seduzione delle parole e gli slogan in campagna elettorale.

La comunicazione politica moderna si è progressivamente spostata verso una semplificazione estrema, dove gli slogan elettorali giocano un ruolo fondamentale nell’orientare l'opinione pubblica e generare consenso. A dire il vero, questo processo di semplificazione e – assai spesso – di banalizzazione riguarda l’intero processo comunicativo. Accade lo stesso nella pubblicità, nella comunicazione televisiva, o negli articoli di giornali. Questa evoluzione riflette non solo un cambiamento nelle strategie di comunicazione, ma anche una profonda comprensione dei meccanismi psicologici che influenzano il comportamento delle masse.

Gli slogan elettorali sono diventati una componente fondamentale delle campagne politiche moderne. Queste frasi brevi, spesso ripetitive e facilmente memorizzabili, hanno il potere di condensare pensieri complessi in input semplici, capaci di risuonare emotivamente in milioni di persone. Per essere compresi e sentiti come propri non necessitano di una particolare capacità di analisi, di una profonda comprensione dei programmi elettorali, nemmeno di particolare impegno intellettivo. Agiscono sul piano mnemonico ed emotivo, si fondano sulla ripetitività e sul non-pensiero, tendono a creare un senso di identità collettiva tra i sostenitori stimolando il concetto di fazione e di tifoseria. 

L’incapacità di “stare nelle cose”, di prendersi il tempo e la responsabilità di comprendere l’accadente, unitamente ad un senso diffuso di frustrazione, di non riuscire ad incidere concretamente sui fatti e sulle decisioni che accadono sopra le nostre teste, ha portato una grande parte della popolazione all’astensione dal voto, oppure ad una partecipazione poco interessata alla politica in generale e alle campagne elettorali, in particolare. Sotto questo punto di vista, gli slogan elettorali trovano terreno fertile, superando l'importanza dei programmi elettorali (difficili da comprendere, lunghi, e quasi sempre disattesi nella realtà dei fatti). Uno slogan elettorale è essenzialmente un claim pubblicitario in ambito politico che mira a vendere il prodotto elettorale, influenzare gli elettori convincendoli a votare, ed a votare per la propria fazione. Uno slogan è cibo per bambini, bambini molto piccoli, ignari ed annoiati.

Gli slogan più efficaci non solo trasmettono un messaggio banale, basico, ma spesso costruiscono una narrazione che coinvolge i votanti su un piano emotivo. Lo slogan "Yes, we can" usato per la campagna elettorale del 2008 da Barack Obama, ha dimostrato come poche parole possano catalizzare speranze e aspirazioni collettive, risultando triplicemente efficaci per queste ragioni:

  • Accessibilità universale del messaggio
  • Potere motivazionale intrinseco
  • Capacità di evocare un senso di comunità e di possibilità/opportunità

Diciamo la verità: "Yes, we can" non significa niente, è pura emozione, non è un impegno politico a nessun livello. Denota capacità nel trasmettere ottimismo e speranza, rispondendo ad un bisogno particolarmente diffuso in quel momento di grave crisi economica globale. Ricordiamo che il biennio 2007-2008 segna l’esplosione di una crisi finanziaria mondiale contraddistinta da una crisi di liquidità e di solvibilità sia a livello delle banche che degli Stati, un periodo di recessione che ha indebolito ulteriormente la classe media sia negli USA che in Europa, dove già le scellerate imposizioni economiche UE avevano messo in difficoltà quella classe sociale.

Lo slogan di Obama era un appello alla sopportazione, alla resistenza, all’andare avanti e all'azione collettiva (We can), rivolto ad un elettorato stanco delle stridenti contrapposizioni politiche e desideroso di cambiamento: determinazione, gioventù, inclusione, ottimismo e fiducia. Lo slogan fu pronunziato per la prima volta nel discorso elettorale dell'8 gennaio 2008, come frase conclusiva. Così che echeggiasse, che restasse nella memoria e desse il via alla ripetizione massiva programmata per la campagna elettorale.

"Yes, we can" non mette in campo nessun impegno politico o sociale. Anzi delega alla collettività la responsabilità di riuscire, o non riuscire. Sembra più una frase motivazionale da coaching, da “volere è potere” per restare nell’ambito degli slogan slegati da un piano di realtà.

Sia chiaro, l’uso degli slogan non è una novità degli ultimi anni. Ci sono sempre stati, si sono sempre usati, ed hanno sempre fatto parte della comunicazione pubblicitaria, commerciale, politica, militare, etc. Spesso, tuttavia, si accompagnavano a maggiori approfondimenti, erano uno strumento comunicativo insieme a tanti altri. Oggi l’uso dello slogan in politica, non solo elettorale, è predominante.

C’è uno slogan storico che ci aiuta a raccontare come certe frasi abbiamo antiche radici e siano state usate anche in passato.

Lo slogan "America First", che molti hanno sentito in anni recenti, ha una lunga storia nella politica statunitense, ben prima di essere adottato da Donald Trump nella sua campagna presidenziale del 2016. L’espressione "America First" ha avuto origine dal Partito Nativista Americano, un movimento xenofobo, negli anni '50 del 1800. La frase è stata utilizzata sia dai politici democratici che da quelli repubblicani. Il presidente Woodrow Wilson usò lo slogan per definire la sua idea di neutralità agli inizi della WW1. Lo slogan fu nuovamente usato dal repubblicano Warren G. Harding durante la campagna elettorale, poi vinta, divenendo presidente dal 1921 al 1923. A differenza di "Yes, we can", "America First" è uno slogan meno neutro, con un maggiore peso ideologico e politico, con un forte richiamo ad idee protezionistiche, nazionaliste, ma anche dal forte animo razzista. Il Ku Klux Klan usava quel particolare motto proprio durate il periodo in cui ebbe maggior peso nella società americana, durante gli anni '20 del Novecento. Ancora "America First" divenne lo slogan dell'American First Committee (AFC), gruppo di pressione non interventista, volto ad opporsi all'entrata in guerra degli USA durante la Seconda guerra mondiale.

Quando "America First" diviene lo slogan elettorale della prima campagna elettorale di Trump nel 2016 aveva questa storia, e questo carico di significati. Più comprensibili e sentiti per l’elettorato americano, molto meno in Europa o in Italia. Vale la pena ricordare che lo slogan “Prima gli Italiani”, che cavalcava l'onda di quella comunicazione, fu adottato dalla LegaNord. Piacque così tanto il “Prima” che fu adottato anche dai partiti di c.d. sinistra.



Dopo la WW2, l’espressione "America First" cadde in disuso a causa delle sue associazioni con il nazionalismo estremista. Quando fu utilizzata per le presidenziali da Trump nel 2016 "America First" venne reinterpretato come una promessa di proteggere gli interessi economici e geopolitici degli Stati Uniti, riducendo il coinvolgimento in conflitti esteri e rinegoziando accordi commerciali. Questo messaggio si inseriva perfettamente nella retorica populista e protezionista di Trump, che si appellava alla classe media bianca colpita dalla globalizzazione. Quella stessa globalizzazione voluta, generata e sostenuta principalmente proprio dagli Stati Uniti e dall’UE. Proprio usando quello slogan, Donald Trump nel 2016 ha sconfitto la candidata del Partito Democratico Hillary Clinton, già moglie del presidente Bill Clinton negli anni Novanta.

Mi sembra molto interessante anche lo slogan Make America Great Again” (in italiano "Rendiamo l'America di nuovo grande"), spesso abbreviato con l’acronimo MAGA. È uno slogan che è stato usato da Trump nelle presidenziali del 2016, ancora nel 2020 contro Joe Biden, e nuovamente nel 2024 vincendo contro Kamala Harris.

Anche in questo caso parliamo di uno slogan che sintetizza in maniera semplicistica tanti concetti, e stimola una miriade di richiami emotivi, storici, culturali nell’elettorato americano, ne sia consapevole o meno. In questo senso, lo slogan è molto più politico di tanti altri.

Per una analisi della comunicazione correlata a questo slogan, a mio avviso, bisogna partire da lontano. La mia attenzione si focalizza su “again”.

"Happy Days Are Here Again" (in italiano “I giorni felici sono di nuovo qui”) è un brano musicale del 1929 di Milton Ager e Jack Yellen. Il brano divenne l’inno del partito democratico americano, ed il titolo lo slogan di Franklin D. Roosevelt in quegli anni. Con gli Stati Uniti in preda alla Grande Depressione durante la campagna del 1932, si percepiva il bisogno di nuove politiche per risollevarsi dalla grande crisi, e quindi di una comunicazione adatta a toccare quelle corde. La canzone guadagnò importanza dopo la decisione spontanea dei consiglieri di Roosevelt di suonarla alla Democratic National Convention del 1932. Non so dire se il titolo della nota serie tv degli anni ‘70 “Happy Days” con Ron Howard/Richie Cunningham, abbia un collegamento con il brano o con lo slogan di Roosevelt. Non lo so. Mi sembra, invece, che gli addetti alla comunicazione elettorale debbano averla considerata quando lavorarono alla campagna presidenziale di Ronald Regan.



“Let's Make America Great Again è stato, infatti, anche lo slogan portante per le presidenziali di Ronald Regan, negli anni ’80.  All’epoca gli Stati Uniti soffrivano di un peggioramento dell’economia interna segnata dalla stagflazione. Usando la difficoltà economica del Paese come trampolino di lancio per la sua campagna, Regan usò lo slogan per suscitare un senso di patriottismo tra l'elettorato.

Durante il suo discorso alla Republican National Convention del 1980, Reagan disse: "Per coloro che non hanno opportunità di lavoro, stimoleremo nuove opportunità, in particolare nei centri urbani in cui vivono. Per coloro che hanno abbandonato la speranza, ripristineremo la speranza. e li accoglieremo in una grande crociata nazionale per rendere di nuovo grande l’America”.

La medesima frase è stata usata anche da Bill Clinton durante la sua campagna presidenziale del 1992. Clinton ha nuovamente ripescato la frase in uno spot radiofonico trasmesso per la campagna del 2008 della moglie Hillary Clinton, in cui contendeva ad Obama la candidatura alla presidenza degli Stati Uniti. Ancora, durante la campagna elettorale del 2016, in cui Hillary Clinton era candidata alla presidenza in opposizione a Trump, il presidente Bill Clinton suggerì che la versione di Trump “Make America Great Again” venisse usata come grido di battaglia elettorale, e fosse un messaggio specifico per i bianchi del Sud razzista del Paese, che Trump promettesse di "darvi un'economia che avevate 50 anni fa, e... farvi risalire nella gerarchia sociale mentre tutti gli altri scendono".

Lo slogan di Trump è più essenziale di quello usato da Regan, ha perso il “Let’s”, riducendone il numero di parole, diventando ancora più semplice e spostando il peso comunicativo sul “Make” iniziale e sull’”Again” finale. L'uso del verbo "make" conferisce un tono attivo e diretto, mentre "great again" evoca un desiderio di rigenerazione nazionale.

Mi sembra degno d’interesse evidenziare come gli stessi slogan siano stati usati più volte, in diverse campagne presidenziali, a distanza di anni, in maniera ripetitiva nella comunicazione di Trump, a prescindere dall’esito elettorale. Più uno slogan viene ripetuto, più viene percepito come credibile. Trump, durante tutte le sue apparizioni elettorali ripeteva costantemente "America First" e "Make America Great Again" per rafforzarne l’efficacia, ottenendo risultato

Mi sembra ancora di maggior interesse constatare come i medesi mantra comunicativi attraversino la storia della comunicazione politica, radicandosi profondamente sia nella memoria individuale dell’elettore, sia nella memoria collettiva di una popolazione. Ascoltare uno slogan di questo tipo comporta richiamare, anche inconsapevolmente, l’appartenenza ad un processo, ad un gruppo, ad un contesto, ad una fazione, ad una ideologia (qualunque questa sia).

L’espressione "Make America Great Again" ha acquisito una risonanza straordinaria, diffondendosi ampiamente nella società e generando numerose interpretazioni e adattamenti. La sua influenza si è estesa attraverso molteplici settori, dalla sfera artistica a quella dell'intrattenimento, oltre che all’ambito politico. È curioso notare come sia i sostenitori che gli oppositori di Trump abbiano fatto proprio questo slogan, utilizzandolo per esprimere le loro rispettive posizioni.

Durante le elezioni presidenziali indonesiane del 2019 l'ex leader dell'opposizione Prabowo Subianto ha utilizzato la frase "Make Indonesia Great Again". Durante le elezioni europee del 2019 in Svezia il partito Democratici Cristiani ha utilizzato lo slogan “Make EU Lagom Again”. "Lagom" è una parola svedese che non ha una traduzione diretta in italiano, ma esprime il concetto di "la giusta misura". Nel 2022, in Spagna il partito Vox ha utilizzato la frase "Hacer a España grande otra vez". In Australia, il partito United Australia Party ha utilizzato gli slogan “Make Australia Great” e “Make Australia Great Again” durante le elezioni parlamentari australiane del 2019 e del 2022.

In Francia, Emmanuel Macron ha usato "En Marche!" ("In marcia!") per trasmettere un senso di dinamismo e rinnovamento. Anche in questo caso uno slogan molto semplice, che dice tutto e non dice niente sul livello dell’impegno politico, della responsabilità elettorale, o sulle linee guida che si intendono perseguire: semplicemente in marcia. Verso cosa? Mistero.


Lo slogan ha alcuni substrati comunicativi che meritano attenzione. Infatti, "En Marche!" era sia uno slogan che l'acronimo del politico (EM = Emmanuel Macron). Il movimento En Marche! venne lanciato il 6 aprile 2016 dal ministro dell'economia del secondo Governo Valls, appunto Macron, fuoriuscito dal Partito Socialista. In occasione delle elezioni legislative del 2017, il movimento venne rinominato "La République En Marche!" (LREM). I valori rivendicati ufficialmente dal partito sono il rifiuto di ogni forma di conservatorismo ed un'adesione al progressismo, con una accezione totalmente come neoliberista ed europeista, intesa come UE. Lo slogan ha contribuito significativamente al successo della campagna di Macron, aiutandolo a costruire un'immagine di rinnovamento politico e cambiamento positivo.

"En Marche!" suggeriva l'idea di una nuova politica in movimento, contrapponendosi ai partiti tradizionali considerati statici. Un punto esclamativo finale ad indicarne l’impeto e l’urgenza. Questo mood era in perfetta corrispondenza con il concetto di “rottamazione” della “vecchia politica” auto-attribuita da Matteo Renzi, in Italia, poco prima. Sia il rottamatore della politica che EM! rispondevano allo stesso bisogno percepito in quel periodo storico, in quel contesto politico e culturale tanto francese quanto italiano: movimento, superamento della vecchia classe politica, andare avanti. Come Macron in Francia, anche Renzi divenne presidente del consiglio, rispondendo ai medesimi “ideali” neoliberisti e filo UE.

La psicologia delle masse gioca un ruolo centrale nell'efficacia degli slogan elettorali. Slogan vincenti hanno spesso contribuito in maniera sostanziale al successo elettorale. Secondo teorie come quella della persuasione elaborativa (Elaboration Likelihood Model), gli slogan funzionano meglio quando attivano percorsi mentali automatici piuttosto che riflessivi.

-Frasi brevi richiedono minor sforzo mentale.

-Messaggi semplici sono più facilmente memorizzabili.

-La ripetizione rafforza il messaggio.

Ciò significa che slogan brevi e ricchi di emozioni possono bypassare la razionalità critica dei destinatari, influenzandoli direttamente sul piano emotivo. Inoltre, gli slogan semplici permettono una facile diffusione virale sui social media, dove la rapidità e la chiarezza sono cruciali. Uno slogan breve o con un “suono” facile nella sua versione in acronimo rende immediato l’uso di hashtag sui social media: #EM! #MAGA risultano molto semplici da essere utilizzati.

Come si affermava in apertura, negli ultimi decenni, la comunicazione politica si è progressivamente semplificata, allontanandosi dai programmi elettorali dettagliati e dalle ideologie strutturate a favore di un uso prevalente - quasi esclusivo - di slogan brevi. Questo fenomeno è influenzato da diversi fattori. Certamente la televisione prima, e i social media poi, hanno ridotto il tempo di attenzione degli elettori, rendendo necessaria una comunicazione più diretta ed efficace. La velocità e la quantità di messaggi a cui le persone sono sottoposte è sempre più grande. La quantità impone la semplicità, l’essenzialità. Lo stesso fenomeno si può riscontrare nella comunicazione sia testuale che visiva in ambito pubblicitario, commerciale.

Gli eventi pubblici di approfondimento politico sono scomparsi, i format televisivi sono estremamente brevi, i candidati devono trasmettere i loro messaggi in pochi secondi con il conduttore che li interrompe, saltando da un argomento all’altro, da un interlocutore all’altro, con l’interruzione dello spot pubblicitario che irrompa su qualsiasi livello di pensiero, qualora dovesse casualmente manifestarsi.

Inoltre, gli algoritmi premiano i contenuti che evocano forti reazioni emotive, favorendo la polarizzazione e la semplificazione. Uno slogan che stimoli posizioni partigiane, identitarie, generando l’effetto tifoso è perfetto per le finalità tecnologiche ed elettorali attuali. Avete notato quanto la partecipazione ai fatti della politica sia sempre più vissuta come una partita di calcio, con tifosi che sventolano bandiere, urlano scompostamente slogan, cantino la loro canzone, ignorando la realtà dei fatti sul terreno di gioco purché possano urlare d’avere vinto, di avere ragione su un qualsiasi interesse di parte? Con la crisi della fiducia nelle istituzioni e nei media tradizionali, gli slogan diventano strumenti di persuasione più potenti delle argomentazioni razionali. Il pubblico tende a credere in ciò che conferma le proprie convinzioni piuttosto che a valutare criticamente i fatti. Le persone sono messe nelle condizioni di gestire informazioni semplici e immediate rispetto a discorsi articolati.

I leader carismatici come Trump, Bolsonaro o Meloni utilizzano gli slogan per creare un’identità forte e riconoscibile. La politica è divenuta – da molto tempo ormai - legata alla personalità del leader piuttosto che a un'ideologia ben definita. L’idea stessa che ci sia un leader, che questa parola sia entrata nel vocabolario politico, evidenzia quanto il popolo sia bambino. Un adulto non ha bisogno di leader, ma di esponenti e rappresentanti politici.

In Italia il maggiore cambiamento della grammatica della comunicazione politica ed elettorale è avvenuta alla fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90, con l’arrivo di Silvio Berlusconi. Il primo slogan con cui si presentò fu "La discesa in campo" del 1994, con cui annunciava la sua attività politica. "Forza Italia", inizialmente slogan, poi nome dei “club” (cioè quelle che in precedenza erano state chiamate sedi di partito) ed infine poi nome del partito. Il "Contratto con gli italiani", un piano d’azione politica suggellato con una firma in diretta tv, privo di qualsiasi valore formale, giuridico, ma dal grande potere evocativo. Similmente altri slogan totalmente scollegati da un piano di realtà o qualsiasi verità come "Meno tasse per tutti" o "Un miracolo italiano" funzionarono benissimo. Si ricordano le campagne elettorali con i claim "Il Paese che amo" e "L'Italia che vogliamo". Indimenticabili le formazioni politiche denominate Casa delle Libertà, Il Popolo della Libertà, o ancora il Polo del Buon Governo. Domanda: come può non essere buona la politica di un polo che si chiama Polo del Buon Governo? Chi volesse contrastarne le decisioni assunte dovrebbe, pur tuttavia, chiamarlo con il nome "Polo del Buon Governo". Complicato da contrastare.

Probabilmente la comunicazione politica italiana, in particolare quella eccellente di Berlusconi e del Movimento 5 Stelle merita un articolo apposito. Vedremo se il futuro avrà spazio per ospitarlo.

Commenti

Post più popolari